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21 Ottobre – Omelia per le Ordinazioni Diaconali e Presbiterale

21 Ottobre 2023

OMELIA ORDINAZIONI DIACONALI E PRESBITERALE

Concattedrale di San Siro – Sanremo, 21 ottobre 2023

Eccellenza, Carissimi Presbiteri e Diaconi, Religiosi e Religiose, Seminaristi, Carissimi Fedeli, “questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo”. (Salmo 117): davvero un grande momento di festa per la nostra Chiesa di Ventimiglia – San Remo l’ordinazione di Andrea e Marco come diaconi e di don Andrea come presbitero; un segno di benedizione per tutti, per loro stessi, per le loro famiglie e gli amici, per questo presbiterio, per il Seminario e per le parrocchie.

Come ricorda Sant’Agostino noi “offriamo a Dio il sacrificio della lode – per questo esiste il sacerdozio – affinché non subentri in noi un’ingrata smemoratezza per l’accumulo dei tempi” (De Civitate Dei).

Penso di interpretare bene i sentimenti che sono nel cuore di questi ordinandi se tutti li riassumo nell’espressione dell’apostolo Giovanni: “noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi” (1 Gv 4, 16), e, ritornando ai testi della Parola di Dio proclamati poc’anzi, desidero cogliere tre aspetti di questo amore affidati al ministero sacro di questi fratelli.

Carissimi ordinandi, il testo del libro dei Numeri richiama all’impegno faticoso, talvolta eroico, di amare il popolo del Signore. Le parole di Mosè possono apparire come un lamento in ragione della fatica del duro compito, quasi una protesta, tanto che il Signore lo esaudisce e gli pone accanto dei collaboratori, come accade anche oggi per me e per questo presbiterio che cresce.

È molto vero che l’esercizio del ministero sia avvertito come un pesante fardello  non soltanto per la molteplicità di incombenze, ma soprattutto per le resistenze, le opposizioni, le delusioni, i tradimenti e i dispiaceri. Questo non perché la nostra gente sia cattiva, ma perché, purtroppo, c’è un nemico che, nel campo di Dio,  semina la zizzania (cfr. Mt 13, 24-28).

Non dimenticando però che Mosè è l’amico di Dio, occorre riconoscere nel suo sfogo una convinzione profonda, che, nonostante il momentaneo scoramento, non riesce a sopprimere, come accadrà anche a Geremia: “Mi dicevo: «Non penserò più a lui,non parlerò più nel suo nome!». Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente,trattenuto nelle mie ossa;mi sforzavo di contenerlo,ma non potevo” (Ger 20, 9). Così Mosé. Lamentandosi del popolo si accorge come non sia possibile cancellare definitivamente la consapevolezza che il Signore non lo aveva chiamato per una prestazione, ma piuttosto per partecipare misteriosamente ad un’opera generativa. “L’ho forse concepito io tutto questo popolo? L’ho forse messo al mondo io perché tu mi dica ‘portalo in grembo’ come la nutrice porta il lattante?”. Mosé, oppresso da quella fatica, sa che la sua domanda è retorica, e la risposta è “”. Chi è chiamato ad annunciare il Vangelo di salvezza sa bene che assume una paternità, come ricorda San Paolo: “Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo” (1 Cor 4, 15).

Anche voi, carissimi ordinandi, continuate ad assimilarvi sempre più a questa attitudine, praticamente l’unica e indispensabile; saranno utili le competenze, le programmazioni, gli aggiornamenti e le tecniche pastorali, ma senza questa tutto resterà sterile, opaco e inutile.

Imparate questa attitudine da Dio stesso e dalla vostra storia personale con lui:  “Quando Israele era giovinetto,io l’ho amatoe dall’Egitto ho chiamato mio figlio.Ma più li chiamavo,più si allontanavano da me;immolavano vittime ai Baal,agli idoli bruciavano incensi.Ad Efraim io insegnavo a camminaretenendolo per mano,ma essi non compreseroche avevo cura di loro.Io li traevo con legami di bontà,con vincoli d’amore;ero per lorocome chi solleva un bimbo alla sua guancia;mi chinavo su di luiper dargli da mangiare” (Os 11, 1-4).

In queste parole di Osea riconosciamo la tenerezza che ha conquistato il nostro cuore accanto alla fatica che facciamo per rimanere insieme a questo Dio, tanto buono e misericordioso da sembrare perdente.

E voi su che cosa vorrete scommettere? Sull’efficienza mondana o sulla tenerezza di Dio? Non dimenticate mai che cosa ha rapito e fatto innamorare il vostro cuore. Perdonati, perdoniamo. 

A questo ci ha esortato il testo paolino della seconda lettura e ciò divenga sempre più elemento determinate della regola di vita: “egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro. Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove” (2 Cor 5, 15-17).

Le promesse di oggi, l’abito che portate, la radicalità di un dono gioiosamente perseverante siano il segno quotidiano di una costante morte a voi stessi per uno sguardo autentico, in cui abbracciare i fratelli regalando loro, mediante la predicazione e i sacramenti, l’esperienza liberante della grazia che fa nuova la vita. Saprete portare la parola della riconciliazione soltanto nella misura in cui permetterete al Signore di curare il vostro cuore da tutte le malinconie assurde e gli inutili rimpianti di ciò che oggi, con entusiasta convinzione, vi lasciate alle spalle. Tornate spesso ad uno specchio che vi consegno con le parole di un Salmo: “Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre” (Sal 131). Non potremo mai essere veri padri se non siamo veri figli, completamente affidati e consegnati.

Eccoci allora alla pagina evangelica, dove sta il cuore e il tesoro del sacerdozio: è in quella sera infatti che Gesù ha lasciato alla Chiesa il dono preziosissimo dell’Eucaristia e del sacerdozio. Voi servirete questo grande mistero all’altare del Signore. Il cuore, rapito dalla solennità di quel momento, è sospeso tra l’angosciosa oscurità della morte e la sfolgorante luce della risurrezione. L’Eucaristia è un affaccio sul mistero della vita, che ci lascia senza parole, immersi nella contemplazione della potenza salvifica di Dio, commossi da un’accondiscendenza impensabile, misteriosamente coinvolti tanto da diventare non soltanto destinatari di un così grande sacrificio, ma anche custodi e dispensatori. Quanto sono vere le parole che si vedono appese in qualche sacrestia: “Sacerdote, celebra questa Messa come se fosse la tua prima Messa, la tua ultima Messa, la tua unica Messa”.

Oggi è così per te, caro don Andrea; a Dio piacendo sarà così anche per voi cari Andrea e Marco, è così per noi tutti, cari confratelli nel sacerdozio.

Coraggiosamente l’evangelista Luca, nel contesto di questo sublime racconto, non si vergogna di narrare pure un elemento di contrasto, che sarebbe ridicolo se non fosse piuttosto pietoso e tragico.

Mentre il Maestro va incontro decisamente alla sua ora e volontariamente consegna alla Chiesa la sua vita nel sacrificio eucaristico, mentre parla di tradimento e di amore sino alla fine, i commensali non trovano di meglio da fare che discutere su “chi di loro fosse da considerare il più grande” (Lc 22, 24).

Non serve nessun commento a questa scena; è opportuno invece riconoscere, preti e laici insieme, che molte Messe vengono svilite e profanate dalle nostre divisioni, dai capricci, dalle distanze e dalle indifferenze, cioè da tutti quegli atteggiamenti, che ci fanno dimenticare che  “poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1 Cor 10, 17).

Carissimi ordinandi, mentre lo ricordo a me stesso e a tutti i confratelli presenti, dico anche a voi un insegnamento di Sant’Agostino: “l’episcopato è nome di ufficio non di onore … affinché non abbia a capire di essere vescovo chi ha amato presiedere, ma non essere di utilità” (De Civ. Dei 19, 19). Vale in genere per il ministero sacro.

Gli fa eco San Gregorio Magno: “Vi sono altre cose, fratelli carissimi, che mi rattristano profondamente sul modo di vivere dei pastori. E perché non sembri offensivo per qualcuno quello che sto per dire, accuso nel medesimo tempo anche me…  Ci siamo ingolfati in affari terreni, e altro è ciò che abbiamo assunto con l’ufficio sacerdotale, altro ciò che mostriamo con i fatti. Noi abbandoniamo il ministero della predicazione e siamo chiamati vescovi, ma forse piuttosto a nostra condanna, dato che possediamo il titolo onorifico e non le qualità. Coloro che ci sono stati affidati abbandonano Dio e noi stiamo zitti. Giacciono nei loro peccati e noi non tendiamo loro la mano per correggerli. Ma come sarà possibile che noi emendiamo la vita degli altri, se trascuriamo la nostra?” (Om 17). 

Questa santa celebrazione eucaristica ravvivi in tutti noi ministri del Signore, la volontà di seguirlo fino in fondo, senza riserve e senza tradimenti, e voi, fedeli carissimi, non cessate di pregare per noi e accompagnateci con la prossimità dell’affetto, dell’esempio, della collaborazione e  della correzione fraterna, quando occorre.

+ Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia – San Remo

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