In occasione della commemorazione della Festa nazionale della Liberazione, è giusto e buono riunirsi per dare nuova voce a coloro che, trovatisi a combattere una guerra crudele, hanno dato la vita nella speranza di conquistare, per coloro che sarebbero venuti in futuro, un avvenire migliore.
Questa voce ci impone di guardare a tutte le popolazioni che oggi si trovano nella stessa situazione in cui loro si trovarono allora, vuoi perché vessati da regimi totalitari, vuoi perché vittime di una guerra che, sebbene contenuta su diversi fronti, sempre più rischia di coinvolgere un numero via via crescente di Stati.
A distanza di quasi ottant’anni da quei fatti che sconvolsero la nostra terra, questa voce si unisce a quella di tanti altri morti, di popoli e luoghi diversi, che hanno subito la morte a causa di totalitarismi di vario colore: pensiamo ai grandi totalitarismi che dal Dopoguerra hanno tenuto il mondo con il fiato sospeso, nell’Est Europa, in Cina, in Sud America, così come i regimi più piccoli, globalmente parlando, di matrice religiosa, tribale o etnica, come in Medio Oriente e in Africa, per non dimenticare le tendenze totalitarie presenti, ancora, in quei Paesi in cui la libertà personale è stata posta al centro della vita sociale.
E’ davanti a questa situazione che, invitato dall’ANPI a presiedere un momento di preghiera per la pace e a benedire il monumento ai caduti dei giardini Vittorio Veneto, a Sanremo, ho proposto la lettura del brano della lettera di San Paolo agli Efesini:
«Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo.
Egli infatti è la nostra pace,
colui che di due ha fatto una cosa sola,
abbattendo il muro di separazione che li divideva,
cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne.
Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti,
per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo,
facendo la pace,
e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo,
per mezzo della croce,
eliminando in se stesso l’inimicizia.
Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani,
e pace a coloro che erano vicini.»
Queste parole di san Paolo assumono una portata mondiale: “Egli è la nostra pace”. Egli, Gesù Cristo, ha testimoniato quale sia la vera strada per la pace, e coloro che commemoriamo oggi, davanti a questo monumento, gli fanno eco: la capacità di dare la vita per qualcun altro, che comunemente chiamiamo “sacrificio”. E’ in questa forza di amore che ogni odio viene soffocato e ogni ingiustizia riparata, nel perdono e nella riconciliazione, e ogni totalitarismo viene sconfitto: nessun tiranno, infatti, può nulla contro chi non teme il dolore e la morte.
E’ per questo che in occasione di questa ricorrenza non possiamo non annunciare la Risurrezione di Gesù dalla morte, unico fatto nella storia che può liberare gli uomini dalla paura di morire, e può darci la forza di amare fino a dare tutto. C’è una gioia e una gloria infinite, in questo amore, più grande di qualsiasi dolore e sofferenza.
In un viaggio in Austria ho visitato il campo di concentramento di Mathausen, dove ogni Nazione europea ha eretto un monumento ai morti in quel campo. Il monumento italiano mi ha colpito molto perché, a differenza degli altri che erano opere d’arte, cariche di significati simbolici, il nostro era un semplice muro con innumerevoli lapidi e fotografie: mi ha dato l’impressione di essere di fronte ad una enorme famiglia. Ed è questo che connotava, in bene e in male, la nostra cultura nazionale.
E’ nella famiglia che si impara la gioia del sacrificio, dove un uomo e una donna accolgono la vita nascente, sacrificando ogni altro interesse alle esigenze del più debole. Nel giorno in cui preghiamo per la pace, non possiamo non renderci conto che la tendenza disgregatrice presente nei mutamenti sociali degli ultimi sessanta anni (tutto ciò che ferisce la persona nella sua dignità, la famiglia e la vita) feriscono la pace, perché mettono il desiderio del singolo al di sopra del bene comune, e specialmente del bene del più debole.
Ancora oggi, dunque, davanti al sacrificio di chi ci ha preceduto, siamo chiamati a riconoscere in Dio, autore della vita, il difensore della natura umana, che ci chiama a scoprire la gioia e la potenza dell’amore fino a dare la vita, a partire dal ritorno ai suoi Comandamenti, promulgati, guarda caso, proprio in seguito ad un’altra Liberazione, quella del popolo d’Israele dalla schiavitù (che possiamo benissimo chiamare totalitarismo) dell’antico Egitto. Oggi come allora, infatti, possiamo riconoscere il totalitarismo come un sistema politico che si arroga il diritto di definire chi è persona e chi non lo è, vuoi per ragioni etniche, razziali, ideologiche o di convenienza: non cambia la situazione se non si è più persone in quanto “razza inferiore” o “nemico del popolo” o “ blasfemo” o “improduttivo” o “non corrispondente ad uno standard di qualità della vita adeguato”. In altre parole, chiunque tenta di ridefinire la natura umana, considerata inadeguata, porta con sé un principio di totalitarismo. La risposta che Dio dà, in ogni tempo e in ogni luogo, è sempre la stessa: Lui ha in sé la capacità di riportare l’uomo alla sua natura, descritta, proclamata e difesa dal Decalogo.
Per questo, essendo stato presente alla manifestazione successiva al momento di preghiera, ci tengo a sottolineare come sia abbastanza incoerente ricordare il sacrificio dei nostri connazionali come se il fascismo, che ha funestato la storia del nostro Paese, fosse l’unico totalitarismo da cui guardarsi, dimenticando così tutti coloro che oggi soffrono per totalitarismi di altro colore, basati su presupposti differenti, legati alla differente situazione socio-culturale dei nostri giorni, come se la Guerra Fredda e il totalitarismo sovietico o cinese non fossero un patrimonio storico comune che richiede una riflessione più matura rispetto alla dialettica che contrappone in maniera un po’ superficiale il fascismo all’antifascismo. In particolare, tengo a sottolineare un passo che l’oratore che ha tenuto il discorso, Gipo Anfosso, ha pronunciato e che mi ha fatto riflettere: sosteneva, infatti, che l’unità tra le persone vada perseguita ma non con tutti, perché ci devono essere dei paletti ben precisi che definiscono chi può essere ammesso e chi no (la citazione non è letterale). Credo che purtroppo in un discorso del genere ci sia un pericolo, che è lo stesso che ha portato all’identificazione dei “sopprimibili” o dei “nemici del popolo”, il pericolo totalitario, appunto. Possibile che nel giorno della Liberazione ci si trovi a fare discorsi che richiamano il totalitarismo? Eppure, effettivamente, dobbiamo avere un criterio di giustizia, perché altrimenti sarebbero i più forti (militarmente, politicamente, economicamente) a imporre il proprio sistema.
A questa empasse noi rispondiamo ricordando Gesù che, intrepido difensore della natura umana creata da Dio, ha preferito essere lui in prima persona vittima inerme del totalitarismo del suo tempo, perché con la sua Risurrezione aprisse la strada ad una nuova via: meglio per l’uomo infatti perdere la sua vita per amore, piuttosto che conservarla e rinunciare a Dio, alla giustizia e all’amore stesso. Meglio, perché in questo modo si dà vita ad una civiltà dove la verità, la cura del debole, la comunione in famiglia sono al centro, difese e non più ostacolate, e ogni persona può trovare la sua dignità nel non vivere più per se stesso, ma per colui che è morto e risorto per noi.
don Gabriele Bodda