È il motto dell’89° Reggimento fanteria “Salerno”, che fino al termine della Seconda Guerra Mondiale era di stanza nella caserma Carlo Gallardi, a Ventimiglia. L’89° Reggimento Fanteria che rappresentò la prima forza di difesa sul confine italo francese fu trasferito da Genova a Ventimiglia nel 1930. La caserma Gallardi era la sede del comando: un grande e austero edificio costruito su tre piani tra il 1932 e il 1934, a circa un chilometro dalla città, sulla sinistra del fiume Roia. La struttura capace di contenere oltre un migliaio di uomini fu intitolata al Tenente Carlo Gallardi, appartenente all’89° e caduto da eroe sul Carso nella Prima Guerra Mondiale. Nel vasto piazzale in cui si accedeva attraverso una erta rampa c’era la palazzina adibita alla Direzione generale. Nel centro dell’area di parcheggio il lavatoio, e, nella parte opposta, il deposito di materiali e vivande con la cucina destinata ai militari. Reduce dalle battaglie combattute sul Fronte occidentale, nel 1940, l’89° Reggimento ”Salerno” nel 1942, venne inviato sul Fronte Russo. In Russia l’equipaggiamento e il vestiario, soprattutto gli scarponi, non erano affatto adatti per affrontare il grande freddo che la stagione stava preparando. Era il “generale inverno” l’alleato più potente atteso dai russi che, agli inizi di dicembre, sferrarono l’attacco. Fu l’inizio di una spaventosa tragedia che si sarebbe consumata nel cuore di quell’inverno 1942-43 con la disastrosa ritirata attraverso la steppa ghiacciata lungo la quale morirono, a migliaia, tutti coloro che non ebbero più la forza di proseguire il cammino.
Una tragedia narrata in “Centomila gavette di ghiaccio”, il celebre racconto autobiografico di Giulio Bedeschi. Terminato il conflitto, ritirati i militari di guardia al confine con la Francia, l’ex caserma venne occupata da profughi di guerra e da centinaia di emigranti provenienti dal nostro meridione, in gran parte dalla Calabria. Erano saliti fin qui in cerca di fortuna, spinti dalla fame e dalla speranza di un futuro migliore, portando appena il necessario oltre a qualche masserizia, pochi oggetti in ricordo del paese natio, sovente senza cultura ma con tanta fiducia nella Provvidenza nel cuore; iniziarono a pendolare come frontalieri, valicando il confine alla ricerca di un lavoro. Il fenomeno del frontalierato ha una lunga storia; quella tra Nizza e Ventimiglia è sempre stata un’area transfrontaliera, e dopo la seconda guerra mondiale lo sviluppo francese ha notevolmente incrementato la mobilità dall’Italia alla Francia attirando nella Liguria occidentale molti meridionali, in particolare calabresi. L’arrivo di questi ultimi è stato particolarmente copioso nel quinquennio 1956-1961; in quell’epoca i frontalieri, come tutti gli immigrati meridionali, erano percepiti in Liguria come una sorta di gruppo estraneo, generando un’inevitabile emarginazione.
L’ex caserma Gallardi con i suoi muri scrostati imbevuti di sudore e povertà divenne così un vero e proprio ghetto nell’immediata periferia ventimigliese, simbolo doloroso di esclusione sociale. La vera svolta per quella variegata comunità disagiata, che alloggiava nelle vecchie camerate militari, senza idonei servizi igienici, arriverà nel 1975, con l’arrivo di una suora: Eligia Guglielmi, Figlia di Maria Ausiliatrice, ventimigliese di nascita, missionaria nella sua terra. Animata dall’ansia apostolica e dallo spirito di servizio suor Eligia, con sorprendente intelligenza capì che quel contesto di povertà materiale e spirituale, fatto di tanta gente diversa stipata in alloggi di fortuna, quei diseredati, quei ‘poveri’, avevano bisogno di incontrare Gesù Cristo. Quelle erano ‘persone’, ricche di umanità e della dignità che gli proveniva dall’essere figli di Dio. Bisognava togliere dalle loro vite il marchio del pregiudizio che derivava già dal solo risiedere alla Gallardi.
L’inclusione sociale dei poveri era un concetto di là da venire; lo avrebbe sviluppato quarant’anni dopo papa Francesco nella Evangelii Gaudium, la prima esortazione apostolica del suo pontificato, promulgata il 24 novembre 2013, che recita: “Dalla nostra fede in Cristo fattosi povero, e sempre vicino ai poveri e agli esclusi, deriva la preoccupazione per lo sviluppo integrale dei più abbandonati della società” (186). Suor Eligia, dando vita nel nome di Maria Ausiliatrice ad un vero Oratorio di periferia il 19 ottobre 1975, ebbe l’illuminata intuizione di comprendere come «La speranza dei poveri non sarà mai delusa», le stesse parole del Sal 9,19 citate dall’incipit della III GIORNATA MONDIALE DEI POVERI che oggi si celebra. In pochi anni trasformò i vecchi locali adibiti al comando militare in luoghi di crescita culturale e spirituale: la cappella, gli ambienti dove studiare e il cortile per giocare. Da credibile Figlia di Maria Ausiliatrice suor Eligia ha sposato il motto di Don Bosco: «Non ho mai conosciuto un giovane che non avesse in sé un punto accessibile al bene, facendo leva sul quale ho ottenuto molto di più di quanto desideravo» perché «chi sa di essere amato, ama e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani. Non basta amare i giovani: occorre che loro si accorgano di essere amati». E’ questa una profonda verità, che la fede riesce a imprimere soprattutto nel cuore dei più poveri: restituire la speranza perduta dinanzi alle ingiustizie, sofferenze e precarietà della vita. E per i suoi ragazzi, i “gallardini”, suor Eligia desiderava ottenere il massimo del riscatto sociale dalla povertà.
Quella Povertà, che nella prospettiva biblica significa prima di tutto la miseria degradante l’uomo e poi la connotazione del complessivo bisogno di salvezza degli uomini cui viene annunciato il Vangelo. Suor Eligia sapeva bene che la fame di pane deve essere vinta, ma la fame di Dio deve restare. E’ stata paladina della solidarietà verso gli ultimi, nella consapevolezza che La solidarietà è anche una vera e propria virtù morale, e non un « sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti ». (Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, 38). (CDSC, 193). “Soffermandoci oggi davanti alla figura di suor Eligia – ci ricorda Antonio Suetta, monsignor vescovo – ci sentiamo incontrati e sfiorati da un mistero che ci sorprende. Suor Eligia ha fatto molto, senza risparmiarsi, con sacrificio, guardando alle necessità dei più fragili e dei più poveri. L’amore che aveva nel cuore aveva una ragione profonda: l’ha fatto per Gesù e l’ha fatto per i poveri, che nella grammatica evangelica è la stessa cosa. “Non chiedo dove”, il vecchio motto dell’89° Reggimento esprime lo stile del cuore disponibile di suor Eligia, che è andata dove il Signore l’ha condotta senza mettere davanti i suoi progetti, le sue aspettative, ma attivandosi completamente diventando sorprendentemente disponibile a tutti”.
Oggi la “missionaria della Gallardi” è ancora lì, con il tratto inconfondibile delle braccia aperte, caratteristica della sua statua posta sulla sommità della salita di accesso al condominio, che accolgono tutti recitando: “Fin l’ultimo respiro è stato per i miei giovani”.
Fabrizio Gatta