OMELIA MESSA CRISMALE 2021
Cattedrale di Ventimiglia, 1 aprile 2021
Carissimi Confratelli Presbiteri e Diaconi, cari Fedeli qui convenuti a rappresentare la nostra Chiesa,
questa solenne liturgia ci convoca attorno alla Parola e all’Eucaristia nella grata memoria del dono della vocazione e della fiducia accordataci con la sacra ordinazione; ci esorta a rinnovare di fronte al santo popolo di Dio gli impegni assunti e ci consegna ancora una volta la grazia e la responsabilità della fraternità presbiterale.
Il segno dei santi oli, oggi benedetti e consacrati, per la santificazione del gregge affidatoci fa risplendere ai nostri occhi la benevolenza di Dio e ci inebria con il profumo della sua misericordia.
Desidero soffermare la nostra attenzione proprio sul ministero parrocchiale, al quale vorrei che pensassimo di dare nuovo e giusto impulso, mentre con grande speranza ci apprestiamo ad uscire dalla pandemia.
Il modello rimane quello delle prime chiese cristiane, in cui la comunità aveva un ruolo fondamentale, salvo l’amministrazione dei sacramenti: da questo punto di vista le nostre Parrocchie sembrano stanche e disperse. Nel disorientamento generale e nella mentalità pervasiva di ciò che definiamo “politicamente corretto” è molto difficile per noi reggere la tensione di una umanità senza bussola. Facciamo davvero tanta fatica a colmare i vuoti e specialmente a superare lo sbaglio di aver relegato la comunità a ruolo marginale ed eccessivamente passivo. Papa Francesco insiste a più riprese sulle pericolose derive del clericalismo, ma non è così semplice e agevole eliminarlo dalla mentalità e dalla prassi. Dobbiamo “uscire” per recuperare un rapporto vivo con il popolo dei sofferenti, dei giovani, dei deboli, degli scartati, degli anziani, delle famiglie in crisi: non permettiamo che la fresca e luminosa testimonianza degli Atti degli Apostoli si spenga nei cuori.
La missionarietà e l’idea costantemente enunciata di “chiesa in uscita” restano spesso lettera morta. Nostro malgrado, tendiamo a diventare dei funzionari del sacramento, autoreferenziali, non per vocazione, ma spesso per autodifesa. Eppure sappiamo che senza la comunità di Cristo non avrebbero senso il nostro servizio e il nostro compito.
Tutti guardiamo con fiducia alla fine della pandemia o almeno confidiamo di veder ripartire seriamente le molteplici attività sociali, che, impedite da troppo tempo, hanno restituito a tutti un senso di solitudine e di smarrimento. Lo dico in prospettiva ecclesiale e religiosa: questa pur limitata distanza dai nostri fedeli rischia di lasciare ancor più sgombero il campo alla pervasività di modelli di vita lontani dal vangelo e talvolta disumani. Il tempo che ci attende dovrà essere segnato da una coraggiosa ripartenza, che trovi nella nostra comunione presbiterale un cuore caldo e profondamente disponibile all’ascolto di “ciò che lo Spirito dice alla nostra Chiesa” (cfr. Ap 2, 7). Dovremo insieme ai nostri fedeli considerare l’impostazione che il sistema organizzativo ecclesiale si è dato e correggerne le spinte verticistiche e burocratiche; dovremo recuperare e promuovere una “sussidiarietà circolare” non mutuata dalla logora politica umana, ma riscoperta nella originalità tipica del mistero della Chiesa. I santi oli, espressione della ricchezza e della potenza divine, che Gesù ha messo nelle nostre mani e che oggi porteremo ai nostri amati fedeli, facciano crescere comunità parrocchiali più animate di Spirito Santo, più unite, più pronte al sacrificio e dunque autenticamente protagoniste senza divisioni e tornaconti nell’organizzazione parrocchiale.
Se non riprenderemo a lavorare con fede e con impegno per smantellare situazioni stanche e sfilacciate, fatte di inefficienti scartoffie e di ammuffita organizzazione, non troveremo mai la quadra e la strada. Non deve succedere che chi ha coraggio e responsabilità di affrontare il parroco o il vescovo riceva una risposta di freddo distacco o venga considerato come un indesiderato sasso d’inciampo. Questo è purtroppo pessimo clericalismo. Al primo Concilio di Gerusalemme, Paolo ebbe il coraggio di parlar chiaro a Pietro e a Giacomo, e quell’autentica “parresìa” non soltanto non spaccò la comunità, ma regalò luce e forza per organizzare l’uscita della Chiesa verso il mondo pagano e annunciare la salvezza non solo ai Giudei, ma anche ai Gentili: il dono dello Spirito Santo riconosciuto e accolto con docilità amalgamò i cuori dei fedeli in una comunione sempre più intensa e inespugnabile facendoli ardere di incontenibile slancio apostolico.
Lavoreremo insieme così, con i nostri fedeli e i vari organismi pastorali da rinnovare e rinvigorire nella prospettiva sinodale che il Santo Padre ha indicato anche per la Chiesa italiana. Dico, a scanso di equivoci, che non mi riferisco a quei fermenti, oggi tristemente imperversanti, di riduzionismo orizzontalistico della Chiesa, che con perniciosa miopia ne deturpa il volto e ne disconosce la missione; a tal proposito cito Benedetto XVI: “La Chiesa non esiste per se stessa, non è il punto d’arrivo, ma deve rinviare oltre sé, verso l’alto, al di sopra di noi. La Chiesa è veramente se stessa nella misura in cui lascia trasparire l’Altro – con la “A” maiuscola – da cui proviene e a cui conduce. La Chiesa è il luogo dove Dio “arriva” a noi, e dove noi “partiamo” verso di Lui; essa ha il compito di aprire oltre se stesso quel mondo che tende a chiudersi in se stesso e portargli la luce che viene dall’alto, senza la quale diventerebbe inabitabile” (Omelia 19.02.2012).
Stimo utile raccomandare la lettura della Regola Pastorale di San Gregorio Magno e ve ne propongo lo stimolante e deciso incipit: “Carissimo fratello, con intenzione umile e benevola tu mi rimproveri di aver voluto sottrarmi al peso della cura pastorale cercando di nascondermi, ma perché non sembri a certuni che tale peso sia leggero, intendo scrivere in questo libro tutto quello che penso della sua gravità, affinché chi è libero da esso non vi aspiri con leggerezza, e chi vi ha aspirato con leggerezza abbia gran timore di averlo ottenuto”. Questo antico testo, con grande saggezza spirituale, ci richiama alla grandezza e responsabilità della missione ricevuta: “Non c’è arte che uno possa presumere di insegnare se non dopo averla appresa attraverso uno studio attento e meditato. Quanta è dunque la temerarietà con cui gli ignoranti assumono il magistero pastorale, dal momento che il governo delle anime è l’arte delle arti. Chi non sa che le ferite dei pensieri sono più nascoste di quelle delle viscere? E tuttavia si dà spesso il caso di persone che non conoscono neppure le regole della vita spirituale, ma non temono di professarsi medici dell’anima, mentre chi ignora la virtù terapeutica delle medicine si vergognerebbe di passare per medico del corpo”. Con grande realismo l’autore richiama alla rettitudine di intenzione e alla vera umiltà: “Ma per lo più coloro che bramano di ricevere il magistero pastorale si pongono in animo anche il proposito di qualche opera buona, e quantunque nella loro aspirazione a quel magistero abbiano di mira la propria esaltazione, tuttavia considerano a lungo col pensiero le grandi cose che faranno e avviene che in essi tutt’altra cosa è ciò che la loro intenzione soffoca nel profondo, da ciò che la considerazione superficiale rappresenta al loro animo. Infatti, non di rado il pensiero mente a se stesso riguardo a sé e si immagina – quanto al bene operare – di amare ciò che di fatto non ama, e – quanto alla gloria del mondo – di non amare ciò che ama. E bramando il potere del primato, mentre lo cerca diviene timoroso verso di esso, ma quando l’ha ottenuto si fa audace. Infatti, finché è proteso ad esso, trepida di non arrivarci, ma una volta arrivato, immediatamente giudica che quanto ha ottenuto gli fosse dovuto di pieno diritto. E quando incomincia a godere mondanamente del primato ottenuto, si dimentica volentieri di tutto quanto aveva meditato di compiere con spirito religioso”.
Sono pochi assaggi, che, spero, ci invitino tutti a riprendere in mano quel testo e farne oggetto di meditazione.
Faccio notare come la Regola Pastorale dedichi la maggior parte della trattazione al compito e al dovere di ammonire coloro che ci sono affidati per guidarli sulla via di Dio. Anche oggi questo è sommamente necessario e urgente, affinché non ci tocchi il grave rimprovero di essere “cani muti” come dice Isaia: “I suoi guardiani sono tutti ciechi, non si accorgono di nulla.
Sono tutti cani muti, incapaci di abbaiare; sonnecchiano accovacciati, amano appisolarsi. Ma tali cani avidi, che non sanno saziarsi, sono i pastori incapaci di comprendere” (56, 10-11).
Prego intensamente il Signore che ci custodisca uniti e ci renda capaci di volerci davvero bene superando i limiti e più ancora le pretese capricciose, che tanto facilmente possono infestare il cuore; per questo metto sull’altare la mia fatica e la mia preoccupazione, che in questo tempo sono piuttosto pesanti, e anche voi offrite insieme con me le vostre tribolazioni e i vostri affanni affinché, aggiunti come l’acqua nel calice santo, ritornino a noi come fresca rugiada di consolazione divina.
Al termine della celebrazione vi sarà consegnato il dono di un libro sull’amministrazione parrocchiale come piccolo contributo per alleggerire una parte delle vostre fatiche, e soprattutto riceverete i santi oli per le vostre comunità; li accompagno con le bellissime parole di San Paolo a sottolineare ancora l’intima e vera natura della missione che abbiamo ricevuto dall’amore di Gesù:
“Siano rese grazie a Dio, il quale sempre ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo e diffonde ovunque per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza! Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo per quelli che si salvano e per quelli che si perdono; per gli uni odore di morte per la morte e per gli altri odore di vita per la vita. E chi è mai all’altezza di questi compiti? Noi non siamo infatti come quei molti che fanno mercato della parola di Dio, ma con sincerità e come mossi da Dio, sotto il suo sguardo, noi parliamo in Cristo” (2 Cor 2, 14-17)
+ Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia – San Remo
Foto Cav. Silvio Astini