Eccellenza, Confratelli Presbiteri e Diaconi, Religiose e Religiosi, Seminaristi, Fratelli e Sorelle,
il Signore ci dona questo giorno di festa e di gioia per arricchire la nostra vita e la nostra Chiesa con i suoi doni.
La benedizione dell’olio dei catecumeni e degli infermi e la consacrazione del crisma esprimono la varietà di molteplici situazioni esistenziali, che Dio vuole abitare con la sua forza e la sua promessa di gioia.
Questa santa celebrazione, contraddistinta dal segno dei santi oli, è pure la festa del sacerdozio, che il Signore ha lasciato alla sua Chiesa come strumento di continuità della sua opera salvifica.
Eleviamo pertanto la nostra lode al Signore per la grazia della divina chiamata, per la fiducia riposta nelle nostre umili persone e per tutta la sovrabbondanza di segni della sua fedeltà sperimentati nel nostro ministero.
Preghiamo per il dono della perseveranza dei sacri ministri e dei chiamati al Sacramento dell’Ordine e imploriamo dal padrone della messe il dono di santi e numerosi operai del Vangelo.
Desidero soffermarmi con voi sul senso e il fascino della nostra consacrazione per continuare poi la meditazione con un piccolo testo, sulla bellezza della liturgia, che vi consegnerò al termine della celebrazione e che vi prego di leggere e attuare con attenzione.
Riprendo una classica definizione, tratta dalla lettera agli Ebrei: “Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati” (Eb 5, 1).
Stimo molto utile richiamare a me stesso e a voi, cari confratelli, che la nostra missione consiste precipuamente, se non esclusivamente, nell’essere “dispensatori dei misteri di Dio” (1 Cor 4, 1) per comunicare a tutti “la multiforme sapienza di Dio” (Ef 3, 10). Già San Gregorio Magno esprimeva un accorato appello: “Vi sono altre cose, fratelli carissimi, che mi rattristano profondamente sul modo di vivere dei pastori. E perché non sembri offensivo per qualcuno quello che sto per dire, accuso nel medesimo tempo anche me, quantunque mi trovi a questo posto non certo per mia libera scelta, ma piuttosto costretto dai tempi calamitosi in cui viviamo. Ci siamo ingolfati in affari terreni, e altro è ciò che abbiamo assunto con l’ufficio sacerdotale, altro ciò che mostriamo con i fatti. Noi abbandoniamo il ministero della predicazione e siamo chiamati vescovi, ma forse piuttosto a nostra condanna, dato che possediamo il titolo onorifico e non le qualità. Coloro che ci sono stati affidati abbandonano Dio e noi stiamo zitti. Giacciono nei loro peccati e noi non tendiamo loro la mano per correggerli. Ma come sarà possibile che noi emendiamo la vita degli altri, se trascuriamo la nostra? Tutti rivolti alle faccende terrene, diventiamo tanto più insensibili interiormente, quanto più sembriamo attenti agli affari esteriori” (Om. 17, 3. 14; PL 76, 1139-1140. 1146).
Mi sembrano sufficienti le sue parole per rinnovare a noi tutti l’esortazione a non trascurare il ministero che ci è stato affidato e a concentrarci su ciò di cui il nostro tempo e il nostro mondo profondamente difettano e necessitano allo stesso tempo: il senso del sacro, i gesti del sacro e la grazia del Signore, che proviene dai Sacramenti.
Anche il cammino sinodale della Chiesa italiana, ora nella sua fase sapienziale, conduca pastori e gregge a comprendere che non saranno programmi, strategie od organizzazioni aggiornati a restituire freschezza evangelica e rinnovato slancio missionario al popolo di Dio, ma un ritorno autentico e profondo alle sorgenti della fede, che stanno nella Parola di Dio e nei Sacramenti.
Non dobbiamo poi accondiscendere alla convinzione, purtroppo diffusa anche in ambiente ecclesiale, che il cristianesimo sia ormai finito e che occorra riposizionarsi all’insegna del pluralismo.
Prendo a prestito una lucida riflessione di un laico cattolico per ricordare che “abbiamo ormai la prova che il mimetismo fino all’assimilazione al gergo e alle attitudini del presente non funziona e non fa proseliti, anzi allontana sempre più i popoli e i singoli credenti dalla vita e da ogni concezione religiosa: se crediamo di contare di più mettendoci semplicemente al passo dei tempi, sposando il linguaggio e le preoccupazioni correnti, perdiamo il senso radicale e originale della nostra missione e del nostro messaggio e il motivo per cui possiamo trovare attenzione nel mondo. Se non parliamo di morte e resurrezione, di senso della vita e amor di Dio; di mistero e scommessa sul rischio della fede, non c’è bisogno di noi nel mondo. E se dimentichiamo i simboli, i riti, le liturgie, le rappresentazioni del sacro, per mimetizzarci di più nel paesaggio corrente, ci confondiamo col mondo, passiamo inosservati, perdiamo la grazia del nostro linguaggio divino e differente, che solo può destare attenzione e ammirazione. Poi è inutile prendercela col supermercato delle religioni, la paccottiglia spirituale, la sottocultura new age, l’analfabetismo religioso, se rinunciamo a coltivare la forza e il mistero della nostra testimonianza, del nostro linguaggio, della nostra capacità di parlare oltre la vita e oltre la morte, di esprimere il desiderio d’eternità. Quelle pseudoreligioni coprono un vuoto che noi lasciamo incustodito…” (Marcello Veneziani).
Non mi dilungo su questo punto, che risplende nella sua evidenza pratica e teologica, ed esorto tutti a rinnovare dal profondo, a partire dalla personale esperienza spirituale, l’esercizio del culto per il nostro popolo affinché senta di essere amato teneramente dal Signore, sperimenti la sua forza trasformante e concorra all’edificazione della Chiesa e alla missione con un cuore rinvigorito dalla grazia divina.
Si curi bene la liturgia preparandola e vivendola con fedeltà e stupore, si moltiplichino le occasioni di condurre i nostri fedeli a Gesù nella Santa Comunione, nell’Adorazione Eucaristica e nel Sacramento della Penitenza.
Il simbolo dell’olio mi spinge poi a parlarvi ancora una volta della nostra fraternità sacerdotale lasciandomi ispirare dal salmo 113, che dichiara “bello e dolce che i fratelli vivano insieme” suggellando il concetto con due affascinanti immagini: “l’olio che scende sulla barba di Aronne” e “la rugiada dell’Ermon che scende sui monti di Sion”.
Il salmo si colloca quasi alla fine dei cantici delle ascensioni ed esprime la gioia di trovarsi tra fratelli.
L’immagine dell’olio profumato è molto significativa sia per la diffusività del profumo sia per la tipologia specifica dell’olio: si tratta dell’unguento con cui si consacrano persone e suppellettili per il culto divino.
La fraternità è dunque legata al culto del Signore ed esprime una valenza sacerdotale e santificatrice.
Il riferimento alla rugiada esprime una sensazione di frescura consolante e piacevole. Come l’unguento sacro anche la rugiada scende, cioè viene da Dio, esprimendo la misteriosa ed efficace sua presenza tra gli uomini, che fonda la loro unità e in essa si manifesta.
Curiosamente il salmo non fa consistere l’esperienza più intensa della fraternità nel camminare insieme del pellegrinaggio, ma piuttosto nel momento in cui si raggiunge la méta del tempio.
Le espressioni del salmo mostrano un uomo credente, in grado di sperimentare una comunione mai vissuta, che scende dall’alto e sente che quella vita è vera, radicata nell’esperienza profonda di chi riconosce Dio come padre.
Il mio augurio, e anche l’impegno che vi lascio e che desidero rinnovare con voi, è che questo presbiterio si consegni completamente alla grazia e alla forza lenitiva di quest’olio di fraternità imparando a dismettere i rancori, a superare le divisioni, ad estirpare le chiacchiere, a gareggiare nella stima vicendevole (cfr. Rm 12, 10) e a lasciarsi costantemente rinnovare dal perdono ricevuto, offerto e condiviso.
+ Antonio Suetta, Vescovo di Ventimiglia – San Remo